Moondance di Van Morrison
Questo qui accanto è l’autore di Moondance, non è un affettato damerino che fa lo swing come se ti servisse al tavolo un acqua minerale (eh sì mister Bublé sto parlando proprio di te!).
È un ragazzo che, iniziata la carriera musicale con i Them (quei giovani arrabbiati) in piena era beat, si è staccato dal suo gruppo, a cui aveva
già regalato pezzi che avrebbero già assicurato l’immortalità a chiunque come Gloria (è di Van non di Jim, quante volte glielo devo ripetere dottore?), Here comes the night e
Baby please don’t go (vabbe’ non è sua, ma tant’è), ha iniziato la carriera solista sfornando un singolo di grande successo come Brown eyed girl (Julia che si prova dei vestiti
in non so quale film).
E quando tutti i discografici erano lì ad aspettare il debutto a 33 giri della nuova gallina dalle uova d’oro che ha appena firmato un sontuoso contratto,
il nostro si chiude in studio con l’obbiettivo di costruire un ponte tra il jazz, il blues e il flusso di coscienza Joyciano. E dopo due giorni ne esce con
Astral Weeks, un disco difficile, 8 canzoni di cui 5 superano i cinque minuti, con nessuna in cui si possa identificare un ritornello, ma
onnipresente nelle classifiche dei dischi più belli di tutti i tempi.
Non presente però, nelle classifiche dei dischi più venduti.
Correva l’anno 1968 e il rosso irlandese dalla voce potente sapeva di avere inciso qualcosa che sarebbe rimasto nella storia, ma sapeva
anche di dover onorare le aspettative di successo che tutti avevano su di lui. È da questa volontà che nasce nel 1970 Moondance (il 33 giri)
magnifico come il precedente ma molto più accessibile alle grandi platee.
Si inizia con Stoned me ballata rock-soul che traccia la via (con quei sax che la colorano) che molti alfieri dell’easy-listening seguiranno, per tutta la carriera, però.
Si prosegue con la titletrack, Moondance. Sì, dottore, è swing, ma è sporcato di birra, bourbon, la voce di Van accarezza e schiaffeggia,
è sicura ma implora, se apprezza la versione che circola nelle radio non corra a comprare l’originale, non se lo merita, dottore.
Ecco che si giunge a Crazy love, dolce e sensuale, densa di cori femminili.
“Turn on the radio” dice in Caravan, la canzone rock dal finale perfetto, che nessuno può evitare di cantare.
E si termina con Into the mystic in cui è l’anima a cantare, riportandoci alle brume del disco precedente.
Dottore, ha appena ascoltato la più bella facciata A di un disco rock, e non lo dice solo zuck.
La seconda facciata è in leggero declino, ma ogni canzone in essa avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi disco che non fosse questo:
le danze di Come running, la mille variazioni dei ritornelli di These dreams of you, la dolcezza dei cori di Brand new day,
i neoceltici flauti (dove siete Hothouse flowers?) di Everyone, il vivace commiato di Glad tidings.
Capolavoro.
La carriera di Van Morrison ci ha regalato altre innumerevoli perle come Jackie Wilson said, Domino, Wild night, ma ho altro da fare, sta arrivando il finale di Caravan:
…
NA NA NA NANANANÀ NANANANÀ…