Belin, che legère!

Dottori, ieri sera alle 18 c’era la presentazione di ‘Hanno ucciso Bocca di rosa‘, romanzo a tre mani scritto da una posse che si è autobattezzata ‘Le Legère’. Il romanzo, edito da Chinaski Edizioni, è una feroce satira che prende spunto dagli stilemi (i carruggi, il pesto, il mare, il genoa, DeAndrè, le prostitute) consolidati della scuola genovese del giallo, entità nata negli ultimi anni attorno ad un gruppo di giallisti ed editori della nostra città.
Ma la satira, dottori miei, coinvolge tutta la città ed il suo ostinato guardarsi l’ombelico, intanto qui ci sono i più grandi cantautori, i più grandi comici, la squadra più antica d’Italia e il pesto, poi, e la focaccia. e persino lo stoccafisso!Hanno ucciso Bocca di Rosa
La presentazione è stata esilarante con i tre autori che interpretavano i tre protagonisti del libro, leggendone diversi brani in prima persona, intervallati da un chitarrista (di cui il vostro Zuck non ricorda colpevolmente il nome) che proponeva dolenti pezzi di De André.
Il libro narra le vicende di tre genovesi che vengono coinvolti nell’omicidio di una prostituta (da qui il titolo):
Fabrizio Sciaccaluga è il tipico genovese fiero della sua città: accento strascicato, fede genoana incrollabile, divoratore di focaccia, comunista e colpito da irrefrenabile saudade appena passa il Turchino.
Giobatta Perasso è il suo amico, ma è l’opposto di lui. Odia la città e vorrebbe bruciarla tutta. Odia soprattutto questo nuovo orgoglio di essere Genovesi che si manifesta con le magliette con le scritte in dialetto (lui ne porta equivalenti con scritto Fuck Luigi Ferraris) e i long drinks al basilico serviti nei locali più ‘in’.
Antonio Gramsci Parodi, nonostante il nome, è un figlio di emigrati e fascista. Anche mezzo camorrista e sampdoriano (che le cose siano legate, dottori?). Esegue regolamenti di conti per il suo boss e ha un passato oscuro da cui fuggire.
I tre si trovano incolpati dell’omicidio della prostituta ‘Bocca di Rosa’ e dovranno togliersi da questo guaio, scoprendo la verità in un crescendo tarantiniano di sangue e sarcasmo.
Il vostro caro Zuck, come potete immaginare, si è divertito assai alla presentazione, ed ha comprato il libro, che leggerà quanto prima. Speriamo solo che mantenga quello che promette nelle prime pagine, dove ci sono le presentazioni dei tre personaggi, che sono esilaranti.
Consigliato a tutti gli appassionati di gialli genovesi e a tutti i foresti che vogliano tentare di capire la nostra mentalità.
Perché, in fondo, noi zeneizi siamo un po’ tutti delle legére.

You can’t beat 2 guitars, bass, drum

È la frase che chiude le note del retro di copertina del più bel disco di Lou Reed.
Si intitola New York e, come spiega il suo autore, è inteso per essere ascoltato in un unica sessione di 58 minuti, come se fosse un film.
La strumentazione è quella essenziale del titolo del post e, all’ascolto, non si sente la necessità di niente altro. Le canzoni sono dedicate alla grande mela e suonano essenziali e stringate, anche quelle che durano più di 5 minuti. I testi sono ficcanti, vanno dall’amore e il riscatto secondo gli immigrati sudamericani di Romeo had Juliette e Dirty blvd., alla sfilata rattristata dall’AIDS di Halloween parade, all’antinazionalismo di There is no time (il testo che preferisco), all’invettiva contro chi  ha nascosto il proprio passato di Good evening Mr Waldheim. Testi magnifici, la cui comprensione l’autore giudicava (sbagliando, secondo me il disco è anche musicalmente eccezionale) essenziale per apprezzare il disco, pretendendo la loro traduzione in Francese, Spagnolo, Tedesco e la lingua del paese in cui si vendeva il disco.
Al posto dei testi in Italiano, sulla pagina completamente bianca, campeggia la desolante scritta "I testi per il 33 giri di Lou Reed New York dovevano essere riprodotti in Italiano; purtroppo, a causa di problemi legali non lo si può fare.".
Magie della censura, I suppose.

Questa è per la dottoressa kzissou a cui dico che le recensioni di Lester Bangs sono magnifiche, non fosse che parla quasi sempre di gruppi sconosciuti.
O di Lou Reed, perlappunto.

Stare in albergo

Mi ero anche dimenticato cosa significa stare in albergo da soli quando si è fuori per lavoro.
Innanzitutto, faccio un utilizzo smodato della televisione, che viene accesa appena si entra in stanza, per tenere un pochino di compagnia. E poi rimane accesa, anche quando sono a letto. Se riesco a conservare un pochino di lucidità, la spengo un attimo prima di chiudere gli occhi, sopraffatti dal sonno, se no, al primo convulso risveglio, nel cuore della notte.
Poi, cenare da soli, al ristorante dell’albergo, sono due palle, alleviate solo dalla lettura del giornale a gratis e dalla Moleskine su cui prendere appunti.
Chissà cosa pensano che io scriva i camerieri e il maitre.
Non preoccupatevi, era solo questo post.